
Nella foto: Camilla si prepara alle avventure di Pasquetta.
Prendi l’anno scorso, ad esempio. Dopo un massacrante viaggio in Thailandia e Cambogia, temperatura media 45 gradi, 200% di umidità, dovevamo rilassarci qualche giorno su un’allegra isoletta nel mare delle Andamane. Due ore dopo lo sbarco sulla spiaggia immacolata, un terremoto ha colpito Banda Aceh in Indonesia: l’allarme tsunami conseguente ci ha costretti a fuggire in mutande e ciabatte sulle colline e a passare la notte in una capanna di selvaggi, sdraiati in mezzo alle bucce di banana e con un pipistrello sulla testa, mentre a casa chiamavano la Farnesina e il Centro Terremoti Americani.
Quest’anno volevamo stare più tranquilli, così ci siamo limitati a fare un giretto in Versilia. Ieri pomeriggio avremmo potuto, ad esempio, fare una passeggiata sul lungomare o prenderci un aperitivo al Forte, 25 euro per uno Sbagliato e via. Invece perché non andare a visitare l’Antro del Corchia? Già il nome avrebbe dovuto farci riflettere: quando si dice “antro”, di solito, non si pensa a coniglietti che saltano e arcobaleni luminosi.
Saliamo sul pulmino con l’arroganza tipica dei milanesi abbruttiti in gita: io in stivali col tacchetto, pantaloni neri, borsettina con fibbia dorata, sciarpetta, cappottino fashion, lui con le Clark della festa e il maglioncino elegante. Gli altri partecipanti alla visita sono in scarponi da trekking, giaccone impermeabile con resistenze elettriche, racchette e casco da speleologo. Qualcuno si è portato uno sherpa tibetano con viveri e attrezzature di primo soccorso. L’autista del pulmino ha 103 anni e profuma di Chianti Gallo Nero: guida sportivamente, con due ruote sull’esigua mulattiera e le altre due costantemente nel baratro.
Un cartello sul pulmino avverte che la gita non è adatta ai cardiopatici, ai claustrofobici, ai non alpinisti esperti e alla gente senza scarponcini da montagna. Inizio a ridere istericamente, mentre il mio compagno, terreo in volto, pigola: “Perché ogni anno a Pasquetta invece che portarmi in gita come gli altri mi fai rischiare la vita? Abbiamo forse dei peccati da espiare?”
All’ingresso dell’Antro la guida addita maligna i miei stivali scamosciati: “Non vorrai entrare con quelli?” Sghignazza e mi lancia un paio di scarponcini da montagna. Cominciamo a sentirci vagamente impensieriti. Per ogni evenienza, mando un messaggio con le mie ultime volontà a mia madre.
Entriamo nell’Antro con la faccia di Dante quando entra all’Inferno. La guida, sempre più sadica, ci avverte subito che il ritmo della camminata dovrà essere sostenuto e anzi aumentare gradualmente. Comincia a correre forsennatamente scapicollando su una scalinata viscida di duemila gradini che porta al centro della terra e, perfidamente, ulula: “Sarà peggio al ritorno quando dovrete rifarla in salita!”
Alcune persone iniziano ad accasciarsi in silenzio tra le stalattiti, dove già biancheggiano alcuni crani e tibie, decisamente umani.
Alla fine della diabolica rampa, la guida annuncia che da lì in poi dovremo stare attenti perché ci sono parecchi punti scivolosi e, con uno scatto felino, inizia a balzellare sulle rocce fradice e limacciose, rivelando la sua vera natura di stambecco.
I lacci dei miei scarponcini si slacciano con perfida puntualità, prima uno e poi l’altro, ogni sette passi circa: il rischio di morire scivolando in un crepaccio tuttavia non è la possibilità peggiore, considerando che il mio compagno mi allieta minacciandomi: “E se saltano fuori i mostri di The Descent? Oddio, hai sentito quel rumore? Guarda là!”. E così via, finché non mi viene una crisi isterica, allora la smette, ma solo per cominciare a cantare inspiegabilmente Un giudice di De Andrè in loop autistico. È evidente che il buio e la mancanza di ossigeno gli hanno fatto perdere completamente il senno. Per fortuna lo sherpa tibetano gli somministra delle erbe himalayane che lo riportano alla lucidità.
Dopo due ore di corsa forsennata nelle viscere di madre terra, torniamo finalmente, decimati nel numero e coperti di fanghiglia, al punto di partenza. Lo stambecco malefico si getta sulla rampa di duemila gradini e scompare alla nostra vista. Noi superstiti ci mettiamo a quattro zampe come Gollum e strisciamo con studiata lentezza su per la scala. In sole cinque ore riguadagnamo l’uscita.
Il vecchio autista si è fermato a far merenda dalla signora Piera che ha una trattoria a valle: adesso impenna il pulmino sulle due ruote posteriori come Celentano in Segni particolari: bellissimo.
Quando finalmente torniamo alla macchina sembriamo due reduci del Vietnam: gli abiti a pezzi, ricoperti di fango e sangue, gli occhi vuoti, dilatati dal terrore.
Mentre The End dei Doors si diffonde nell’abitacolo, partiamo muti, fissando l’orizzonte, chiedendoci il destino quali altri orribili piani avrà per la nostra prossima Pasquetta. E piangiamo in silenzio.