
Tuttavia sono caduta anch’io vittima del terrorismo psicologico che dà da vivere a riviste con la parola “sano”, “bello” e/o “donna” nel titolo: il cedimento strutturale alle soglie dei trent’anni. Così, più per mettere a tacere quegli amici malevoli che prospettavano una mia istantanea trasformazione in Jabba the Hutt una volta compiuti i fatidici anni che per convinzione reale, mi sono iscritta in palestra. Naturalmente, una palestra da anziani, piccolissima, con i muri un po’ scrostati: l’unica che mi possa attualmente permettere.
Perciò stamattina mi sono ritrovata lì, con il mio completo H&M da 15 euro e le mie Nike consunte dell’ora di ginnastica al liceo, a correre sul tapis roulant. E mentre correvo, cullata dal cigolio di vertebre e giunture delle vecchiette della ginnastica dolce, ero costretta a guardarmi allo specchio. E mentre mi guardavo correre, sempre più affannata, spettinata, arrossata e orribile, correre a perdifiato, correre come se non ci fosse un domani ma sempre RESTANDO FERMA ho avuto un’epifania. Quell’essere patetico, sudaticcio e rantolante, non ero io: era l’immagine della mia generazione. Noi trentenni di oggi, sempre di corsa. Sempre affannati tra mille impegni. Non abbiamo mai tempo di fare niente: le incombenze si affastellano una sull’altra rendendo la nostra agenda un indecifrabile palinsesto. Corriamo come pazzi, assaltiamo la metropolitana, scapicolliamo giù dai treni, ci precipitiamo in macchina, con lo Smartphone incollato al palmo della mano e il dovere di essere ubiqui, onnipresenti, trini, onniscienti. Siamo reperibili, flessibili, telesfruttabili: anche ammalarsi non serve perché possiamo LAVORARE DA CASA. La sera. Nei weekend. Nella vacanze. Sul water. C’è sempre qualcosa da fare, manco fossimo tutti Ban Ki Moon e dalle nostre email dipendesse il destino del mondo. D’altra parte, non è così che ci sentiamo? O meglio, non è così che ci vogliamo sentire? Abbiamo bisogno di sentirci indispensabili, fondamentali, guidati dal sacro fuoco del dovere. Dobbiamo andare alla riunione, ne va della stabilità dei pilastri del cielo stessi. Dobbiamo rispondere subito alla mail o il Mar Rosso si prosciugherà. Perché se così non fosse, che senso avrebbe tutto questo? Che senso avrebbe affannarsi come pazzi per 400 euro al mese, per contratti da quindici giorni, per stage gratuiti, per assunzioni che promettono di arrivare quando matureranno le nespole? Che senso avrebbero i pomeriggi in tuta passati davanti al pc a mandare curriculum in maniera compulsiva? Se non fossimo davvero tutti superimpegnati, incasinati, presissimi da mille cose, forse ci fermeremmo a riflettere sulla direzione che stiamo percorrendo. E ci accorgeremmo di non essere arrivati dove pensavamo di essere quando a diciotto anni ci pensavamo trentenni. Ci pensavamo sposati, magari, con figli. Con una casa, una macchina, un lavoro fisso da duemila euro al mese. Ci pensavamo quasi decrepiti, con i piedi davanti al caminetto e un cane da portare a passeggio dopo cena. Non ci saremmo mai pensati lì in discoteca con una birra di cattiva qualità in mano a fingere di non essere ancora troppo vecchi per tirare tardi. Non ci saremmo mai pensati a mandare domande per andare all’estero, disposti a ricominciare ancora tutto da capo pur di avere una chance. Non ci saremmo mai immaginati in affitto perenne, le cose inscatolate nella cantina di mamma e papà che loro sì, ce l’hanno una casa.
Ma tutto questo è troppo doloroso per una giornata di fine gennaio alle soglie dei trent’anni: perciò non mi resta che prendere in mano la mia agenda ideogrammata di impegni, riempirne la testa e cominciare a correre, correre, correre. Senza arrivare in nessun posto.