Parto da un flashback, che mi spiego meglio.
Quest'anno ho avuto la fortuna di potermi perdere tra le migliaia di opere d'arte dell'Hermitage di San Pietroburgo, e di fronte a più di un quadro ho sentito, e non scherzo, un pugno allo stomaco e le lacrime agli occhi.
Tra questi, "L'Angelo della Morte" , che vedete sotto.
Pugno tra le costole. Lacrimoni negli occhi.
"Sono una persona profondamente superficiale" aveva detto.
Gratta sotto la superficie, e non c'è niente.
(Che poi non è vero, naturalmente, o almeno, non per Warhol in senso stretto, non per la paura di morte che l'aveva colto dopo essersi beccato un proiettile, come le sue Marylin, paura che traspare dai suoi teschi, per esempio).
Ma comunque.
Guarderai quest'opera e ti piacerà, ma non in una maniera particolare. Ti sembrerà qualcosa di già visto, qualcosa di simile a ciò che hai trovato sfogliando un centinaio di riviste. Ma cazzo, è proprio questo il punto: molto di ciò che viene fotografato e dipinto e impaginato oggi è figlio delle sue scarpe, delle sue gigantografie di criminali, dei suoi auto ritratti con i capelli ad ananas. È chiaro che non ci impressiona la pila di Volta, a parte il fatto che il mondo che abbiamo intorno gira grazie al fatto che Volta ha impilato dei dischi di rame.
Guarderai le scarpe di Warhol e non ti colpiranno più di tanto; ti sembreranno così comuni, così già viste. Andrai alla mostra di Warhol e non ne sarai impressionato, perché il mondo in cui vivi è un mondo Wahrol.
Si ringrazia Alessio Coinquilino per le foto clandestine.