
di Chiara Boscaro
Sto fuori. Fuori dall'Italia. In Slovacchia, per la precisione. E guardo all'Italia con nostalgia. Mi affaccio dalla balconata color cacca di un auditorium razionalista post-sovietico e penso a ciò che mi sono lasciata alle spalle. Quando si è a casa il peso dell'esistenza e del banale quotidiano spinge lo sguardo verso il basso, sul catrame, sulla polvere, sulle pozze di umori che trasudano
ldalla città. Ma quando si è fuori, quando si è lontani no. Allora l'occhio si arrampica sulle pareti e arriva proprio a loro. I balconi. E lì mi ricordo di Milano. Il liberty. I mostri di via Palestro. Le colonne in porta Venezia. Le terrazze in Brera. Il loggione della scala. La vista dalle guglie del duomo. Le balconate dei cinema chiusi. C'è qualcosa di molto teatrale che mi affascina, nei balconi. Luoghi di casa ma esterni, e quindi pubblici. La casa di ringhiera ne è l'esempio più lampante, ben lontana dalla filosofia dell'attico con vista. Qui non si sputa in testa al poveraccio del piano di sotto. Qui la vita sale verso gli abbaini con i vapori della cena e scende nelle profondità delle cantine con l'acqua che cola dai gerani e dal bucato appena fatto. Qua si condividono nascite e litigi e raccolta differenziata. Qua la gente fa le scenate e sbatte le porte, perché la porta da sul balcone, ma anche la finestra, e allora perché non buttare l'occhio in casa del vicino? A me piacciono quelli che sul balcone ci mettono le girandole e le campane a vento. Io sul balconcino ci faccio la colazione d'estate, e spio i vicini. In molti lo fanno. Personalmente condivido una relazione balconistica con un ciccione latinoamericano perennemente in mutande, con una vecchietta che si nasconde dietro le persiane ma le spuntano i piedi da sotto e con un'altra con l'espressione arcigna. E non posso farne a meno. Qui in Slovacchia i balconi li hanno, ma nessuno mette su Gigi D'Alessio a tutto volume con le finestre aperte.
Sto fuori. Fuori dall'Italia. In Slovacchia, per la precisione. E guardo all'Italia con nostalgia. Mi affaccio dalla balconata color cacca di un auditorium razionalista post-sovietico e penso a ciò che mi sono lasciata alle spalle. Quando si è a casa il peso dell'esistenza e del banale quotidiano spinge lo sguardo verso il basso, sul catrame, sulla polvere, sulle pozze di umori che trasudano
ldalla città. Ma quando si è fuori, quando si è lontani no. Allora l'occhio si arrampica sulle pareti e arriva proprio a loro. I balconi. E lì mi ricordo di Milano. Il liberty. I mostri di via Palestro. Le colonne in porta Venezia. Le terrazze in Brera. Il loggione della scala. La vista dalle guglie del duomo. Le balconate dei cinema chiusi. C'è qualcosa di molto teatrale che mi affascina, nei balconi. Luoghi di casa ma esterni, e quindi pubblici. La casa di ringhiera ne è l'esempio più lampante, ben lontana dalla filosofia dell'attico con vista. Qui non si sputa in testa al poveraccio del piano di sotto. Qui la vita sale verso gli abbaini con i vapori della cena e scende nelle profondità delle cantine con l'acqua che cola dai gerani e dal bucato appena fatto. Qua si condividono nascite e litigi e raccolta differenziata. Qua la gente fa le scenate e sbatte le porte, perché la porta da sul balcone, ma anche la finestra, e allora perché non buttare l'occhio in casa del vicino? A me piacciono quelli che sul balcone ci mettono le girandole e le campane a vento. Io sul balconcino ci faccio la colazione d'estate, e spio i vicini. In molti lo fanno. Personalmente condivido una relazione balconistica con un ciccione latinoamericano perennemente in mutande, con una vecchietta che si nasconde dietro le persiane ma le spuntano i piedi da sotto e con un'altra con l'espressione arcigna. E non posso farne a meno. Qui in Slovacchia i balconi li hanno, ma nessuno mette su Gigi D'Alessio a tutto volume con le finestre aperte.