
di Chiara Boscaro
È successo di nuovo.
Il periodo pre-natalizio, si sa, è già difficile di suo. Ci sono le pizzate con gli ex-compagni del liceo dove menarsela perché si è artisti e si fa una vita tremendamente interessante. Ci sono gli spettacolini finali dei laboratori nelle scuole elementari con relativi insegnanti da convincere che anche se non c’è la scenografia di cartapesta è comunque teatro. Ci sono i testi da consegnare ai registi perché vogliono assolutamente provare durante le vacanze di Natale, pur sapendo che l’attore medio appena arriva una festa vola a casa da mammà a sfondarsi di quelle pregiate pietanze (vedi carne, pesce, verdure fresche e tutto ciò che prende le distanze dalla scatoletta di fagioli) di cui si priva durante l’anno per ovvi problemi bancari. Ci sono i regali da comprare, ma non ci sono i soldi per comprarli, indi si ripiega sulle suddette scatolette (per quest’anno mi sono concentrata sul succedaneo del tonno in olio di colza e sulla giardiniera sott’aceto che vendono negli alimentari slavi, ma anche i würsteln bianchi in lattina mi tentano). Ci sono i parenti che ci pongono davanti interrogativi esistenziali degni di un filosofo teoretico tipo “Ma dove vivi?” “Ma come vivi?” “Ma con chi vivi?” “Ma come fai a definirlo lavoro, se non ti pagano?” “Ma un concorso sarà mica un contratto?” ecc.
E poi c’è lui.
Provvidenziale come il temporale in uno slum di Calcutta.
Preciso come una cartella esattoriale.
Distruttivo come un “carino quel vestito, l’hai preso al mercato?”.
Lui.
Il virus gastrointestinale.
Pareva un luminoso lunedì di quasi inverno. Pareva la giornata giusta per poltrire sotto la copertina dopo aver lavorato dalle 6.30 all3 8.30 del mattino. Pareva perfetta quella colazione lussuriosa con il cornetto di pasticceria. (n.d.r. questa l'avete già sentita, eh?)
E invece no. Rantoliamo. Corriamo al secchio. Ci dividiamo il riso in bianco. Torniamo a rantolare.
Perché queste cose è sempre meglio farle in due.
È successo di nuovo.
Il periodo pre-natalizio, si sa, è già difficile di suo. Ci sono le pizzate con gli ex-compagni del liceo dove menarsela perché si è artisti e si fa una vita tremendamente interessante. Ci sono gli spettacolini finali dei laboratori nelle scuole elementari con relativi insegnanti da convincere che anche se non c’è la scenografia di cartapesta è comunque teatro. Ci sono i testi da consegnare ai registi perché vogliono assolutamente provare durante le vacanze di Natale, pur sapendo che l’attore medio appena arriva una festa vola a casa da mammà a sfondarsi di quelle pregiate pietanze (vedi carne, pesce, verdure fresche e tutto ciò che prende le distanze dalla scatoletta di fagioli) di cui si priva durante l’anno per ovvi problemi bancari. Ci sono i regali da comprare, ma non ci sono i soldi per comprarli, indi si ripiega sulle suddette scatolette (per quest’anno mi sono concentrata sul succedaneo del tonno in olio di colza e sulla giardiniera sott’aceto che vendono negli alimentari slavi, ma anche i würsteln bianchi in lattina mi tentano). Ci sono i parenti che ci pongono davanti interrogativi esistenziali degni di un filosofo teoretico tipo “Ma dove vivi?” “Ma come vivi?” “Ma con chi vivi?” “Ma come fai a definirlo lavoro, se non ti pagano?” “Ma un concorso sarà mica un contratto?” ecc.
E poi c’è lui.
Provvidenziale come il temporale in uno slum di Calcutta.
Preciso come una cartella esattoriale.
Distruttivo come un “carino quel vestito, l’hai preso al mercato?”.
Lui.
Il virus gastrointestinale.
Pareva un luminoso lunedì di quasi inverno. Pareva la giornata giusta per poltrire sotto la copertina dopo aver lavorato dalle 6.30 all3 8.30 del mattino. Pareva perfetta quella colazione lussuriosa con il cornetto di pasticceria. (n.d.r. questa l'avete già sentita, eh?)
E invece no. Rantoliamo. Corriamo al secchio. Ci dividiamo il riso in bianco. Torniamo a rantolare.
Perché queste cose è sempre meglio farle in due.