
QUESTO RONCONI MI HA MESSO IL “PANICO”
Sono andato a vedere Ronconi. Ebbene sì. Passano gli anni ma lui è sempre lì, al Piccolo teatro a fare il teatro con la T maiuscola, quello che noi teatranti cerchiamo quotidianamente nei nostri progetti indipendenti, nelle produzioni grandi e piccole che affrontiamo. Ah, dimenticavo: chi è Luca Ronconi? Beh, noi attori, lo sappiamo fin troppo bene chi è: uno dei più grandi registi di teatro del 900, e ora che siamo negli anni 2000, anche uno dei più attempati… ma, questo bisogna ammetterlo, ancora uno dei più moderni. E dei più pagati (lo so, sono bipolare). Infatti ogni volta che iniziamo un nuovo spettacolo “noi” attori siamo sempre lì a lamentarci: che il progetto non è pagato abbastanza; che il regista non è abbastanza chiaro; che la produzione non è grande e non ha sufficiente visibilità. Invece Ronconi paga, è chiaro, è grande ed è visibile.
L’ unico neo di solito è: Ronconi è talmente grande che non c’ è spazio per gli altri; è talmente chiaro che non si capisce niente delle indicazioni che dà agli attori, tanto da risultare oscuro anche agli spettatori; è talmente visibile che si vede solo lui.
Ma non questa volta, questa volta non ci sono nei.
È un giorno come tanti quello in cui decido di andare a vederlo: ma non sono l’ unico. È la prima del suo “panico” e al teatro Strehler ci sono quasi tutti gli attori e i registi della società teatrale milanese e non: quelli che lo idolatrano, quelli che lo detestano, quelli che si sono formati con lui alla scuola di Milano e di Torino e di Roma. Ma ci sono anche spettatori tra i più comuni e inermi, ignari del fatto che stanno per sorbettarsi 3-4 ore di spettacolo, come di consueto. Pare quasi che Ronconi abbia il dono dell’ubiquità, oltre a quello della prolissità: è dappertutto nel teatro e il teatro è intriso, volente o nolente, dei suoi insegnamenti come anche delle sue maniere artistiche. La mia mente è affollata di questi pensieri quando mi siedo al mio posto in galleria: leggo qualcosa della brochure e cerco di liberare la mente, consapevole del fatto che per un quarto di giornata dovrò guardare e stare in silenzio: un vero esercizio ascetico! E poi inizia. Un enorme velo bianco si alza e appare una scenografia imponente ma evanescente. E qui inizia il panico di Rafael Spregelburd, uno dei sette testi scritti da questo autore argentino, vivente (udite udite, ed è in buona salute anche) per rappresentare i sette peccati capitali dell’ era moderna. Luca Ronconi aveva già messo in scena la “modestia” (senz’altro la dote che gli manca), ma questa è la volta dell’affascinante e intrigante “panico”.
La vicenda è semplice e lineare: una famiglia piccolo borghese il cui pater familias è morto si incaponisce alla ricerca della chiave della cassetta di sicurezza nella quale è custodita la sua eredità. La madre è la Paiato, i figli Falco e la Ciocchetti, il padre morto (perché c’ è anche lui) Paolo Pierobon. Non c’ è altro da dire della trama, il resto è un mirabolante susseguirsi di eventi che porta la piccola famigliola verso il panico. potrei parlare della medium che cerca la chiave con sedute spiritiche, delle compagne di danza della figlia, del transessuale con cui il figlio ha un incontro, della dirigente bancaria che custodisce la cassetta di sicurezza .
dirò solo che durante lo spettacolo pensavo esclusivamente a questo: come andrà a finire? Ma soprattutto: finirà? E’ un giallo, un thriller, un libro di fantascienza questo panico di Ronconi. Un po’ lunghetto, ma neanche tanto, devo ammetterlo. E sono e resto convinto fino al finale della pièce (quindi ci rifletto per molte ore) che questo spettacolo rimarrà negli annali e soprattutto nella memoria di chi ha avuto la prontezza e la pazienza di vederlo.
Uscito da teatro torno lemme lemme verso casa ripetendomi: è vero, Ronconi è troppo intellettuale in tante sue manifestazioni artistiche e di pensiero, ma non questa volta: l’ ironia e la leggerezza che sovrastano il suo panico sono accessibili a tutti. Certo c’ è anche l’ altro lato della medaglia: il panico è venuto a me, come immagino a tanti altri spettatori, nell’ascoltare le parole cantate, lentissime e arzigogolate messe in bocca agli interpreti, e nell’ammetterlo sulle mie labbra si delinea un sorriso: sono esausto ma felice, perché ho visto del buon teatro.
Sono andato a vedere Ronconi. Ebbene sì. Passano gli anni ma lui è sempre lì, al Piccolo teatro a fare il teatro con la T maiuscola, quello che noi teatranti cerchiamo quotidianamente nei nostri progetti indipendenti, nelle produzioni grandi e piccole che affrontiamo. Ah, dimenticavo: chi è Luca Ronconi? Beh, noi attori, lo sappiamo fin troppo bene chi è: uno dei più grandi registi di teatro del 900, e ora che siamo negli anni 2000, anche uno dei più attempati… ma, questo bisogna ammetterlo, ancora uno dei più moderni. E dei più pagati (lo so, sono bipolare). Infatti ogni volta che iniziamo un nuovo spettacolo “noi” attori siamo sempre lì a lamentarci: che il progetto non è pagato abbastanza; che il regista non è abbastanza chiaro; che la produzione non è grande e non ha sufficiente visibilità. Invece Ronconi paga, è chiaro, è grande ed è visibile.
L’ unico neo di solito è: Ronconi è talmente grande che non c’ è spazio per gli altri; è talmente chiaro che non si capisce niente delle indicazioni che dà agli attori, tanto da risultare oscuro anche agli spettatori; è talmente visibile che si vede solo lui.
Ma non questa volta, questa volta non ci sono nei.
È un giorno come tanti quello in cui decido di andare a vederlo: ma non sono l’ unico. È la prima del suo “panico” e al teatro Strehler ci sono quasi tutti gli attori e i registi della società teatrale milanese e non: quelli che lo idolatrano, quelli che lo detestano, quelli che si sono formati con lui alla scuola di Milano e di Torino e di Roma. Ma ci sono anche spettatori tra i più comuni e inermi, ignari del fatto che stanno per sorbettarsi 3-4 ore di spettacolo, come di consueto. Pare quasi che Ronconi abbia il dono dell’ubiquità, oltre a quello della prolissità: è dappertutto nel teatro e il teatro è intriso, volente o nolente, dei suoi insegnamenti come anche delle sue maniere artistiche. La mia mente è affollata di questi pensieri quando mi siedo al mio posto in galleria: leggo qualcosa della brochure e cerco di liberare la mente, consapevole del fatto che per un quarto di giornata dovrò guardare e stare in silenzio: un vero esercizio ascetico! E poi inizia. Un enorme velo bianco si alza e appare una scenografia imponente ma evanescente. E qui inizia il panico di Rafael Spregelburd, uno dei sette testi scritti da questo autore argentino, vivente (udite udite, ed è in buona salute anche) per rappresentare i sette peccati capitali dell’ era moderna. Luca Ronconi aveva già messo in scena la “modestia” (senz’altro la dote che gli manca), ma questa è la volta dell’affascinante e intrigante “panico”.
La vicenda è semplice e lineare: una famiglia piccolo borghese il cui pater familias è morto si incaponisce alla ricerca della chiave della cassetta di sicurezza nella quale è custodita la sua eredità. La madre è la Paiato, i figli Falco e la Ciocchetti, il padre morto (perché c’ è anche lui) Paolo Pierobon. Non c’ è altro da dire della trama, il resto è un mirabolante susseguirsi di eventi che porta la piccola famigliola verso il panico. potrei parlare della medium che cerca la chiave con sedute spiritiche, delle compagne di danza della figlia, del transessuale con cui il figlio ha un incontro, della dirigente bancaria che custodisce la cassetta di sicurezza .
dirò solo che durante lo spettacolo pensavo esclusivamente a questo: come andrà a finire? Ma soprattutto: finirà? E’ un giallo, un thriller, un libro di fantascienza questo panico di Ronconi. Un po’ lunghetto, ma neanche tanto, devo ammetterlo. E sono e resto convinto fino al finale della pièce (quindi ci rifletto per molte ore) che questo spettacolo rimarrà negli annali e soprattutto nella memoria di chi ha avuto la prontezza e la pazienza di vederlo.
Uscito da teatro torno lemme lemme verso casa ripetendomi: è vero, Ronconi è troppo intellettuale in tante sue manifestazioni artistiche e di pensiero, ma non questa volta: l’ ironia e la leggerezza che sovrastano il suo panico sono accessibili a tutti. Certo c’ è anche l’ altro lato della medaglia: il panico è venuto a me, come immagino a tanti altri spettatori, nell’ascoltare le parole cantate, lentissime e arzigogolate messe in bocca agli interpreti, e nell’ammetterlo sulle mie labbra si delinea un sorriso: sono esausto ma felice, perché ho visto del buon teatro.